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La cura psicoanalitica

La maggior parte dei disagi psicologici nasce da un’impossibilità a dire qualcosa, qualcosa che ha a che fare con le nostre relazioni, i nostri desideri, le nostre sofferenze. La clinica psicoanalitica è una clinica della parola, dove il soggetto, accolto dall’analista, è invitato a dire, secondo i due imperativi fondamentali dell’analisi: vieni!, che indica l’accoglimento, da parte dell’analista, la porta sempre aperta per chi vuole entrare, e parla!, che soggiace a quella che Freud chiamò la regola fondamentale, ovvero l’associazione libera. E’ in questo parlare che il soggetto, dapprima portatore di un lamento, incontra nel suo stesso discorso qualcosa che, suo malgrado, fa inciampo, lo sorprende, non si aspetta. E’ lì che il soggetto incomincia a intravedere qualcosa di sé, del suo inconscio, che traspare e lo colpisce, e che rovescia le fittizie certezze per cominciare a dire qualcosa della sua verità, la verità inconscia appunto. In questo lavoro di parola il soggetto, attraverso la relazione di transfert con il proprio analista, arriva a rettificare il suo rapporto con il proprio disagio, con la propria lamentela, domandandosi che parte ha lui stesso in ciò che patisce. Qui comincia il lavoro di analisi vero e proprio che non è un lavoro di cura, ma di attraversamento del proprio fantasma , direbbe Lacan , ovvero di conoscenza di sé, della propria modalità di relazione con l’Altro, con la realtà, con il proprio desiderio e il proprio godimento, al fine di smarcarsi da una posizione di sofferenza, non già adeguandosi ad una normalità predefinita e preconfezionata, ma anzi valorizzando la propria diversità ed unicità.

E’ dunque attraverso il racconto di sé, del sintomo che il proprio inconscio in sofferenza ha costituito, che il soggetto può far parlare il proprio inconscio e mettere in parola il proprio disagio. Il prendere parola sul proprio disagio è dunque il primo fondamentale passo nel percorso di cura.

La clinica della modernità ha però messo in luce tutta una serie di sintomatologie contemporanee che con la parola non hanno nulla a che fare, ma che piuttosto si esprimono nel corpo: anoressia , bulimia , tossicodipendenza , e tutte le forme esasperate di azione sul corpo (dall’autolesionismo al ricorso eccessivo e patologico all’esercizio fisico, alla chirurgia estetica, e quant’altro). Tali operazioni finiscono per fare del corpo un feticcio contro una possibile soggettivazione del disagio e della sofferenza.

Anche per queste psicopatologie moderne, che sembrerebbero in contraddizione con la psicoanalisi come cura della parola, è in realtà quanto mai utile instaurare un rapporto di salvaguardia dello spazio del discorso, perché finalmente il soggetto possa imparare a dirsi senza più utilizzare il corpo, soggettivandosi nella sofferenza che il suo corpo denuncia. Per questo risultano molto utili i setting gruppali per questo tipo di sintomatologie, proprio perché attraverso il confronto con il vissuto e il racconto del gruppo, che funge da specchio per il soggetto, questi possa cominciare a rintracciare in sé non solo gli elementi comuni ma anche quelli di unicità che caratterizzano la sua storia, la sua posizione soggettiva, e possa cominciare a dirne qualcosa e quindi ad elaborare una vera e propria domanda di analisi , che comincia appunto con la domanda “che parte ho io in questa sofferenza?”.